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Scuola pubblica, Storia sociale di una colonna infame

La scuola italiana per decenni è stata il luogo della mediazione, dove una classe docente spesso abbandonata a se stessa ha, in ogni modo e a “sue spese”, garantito la trasmissione pubblica del sapere. Le ultime legislature, invece, hanno visto continui tentativi di modificazione degli assi portanti del sistema formativo nazionale, tanto che cambiare sembrava negli ultimi anni essere diventata la nuova parola d’ordine imperante nella scuola italiana. Non tutti i cambiamenti sono, però, una riforma; un cambiamento può essere considerato una riforma quando esso è reale: ovvero quando risponde alle domande nuove che sono poste dopo aver soddisfatto le prime, dalle cui esigenze di risposta era nato. Ma la scuola italiana aveva veramente risposto alle domande che la società del dopoguerra e della costruzione della Repubblica le aveva posto? Aveva, in altre parole, soddisfatto, poiché istituzione della Repubblica, il secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione che affida allo Stato il compito di attuare, eliminando gli ostacoli materiali, l’uguaglianza, andando così oltre la mera petizione di principio della prima parte dell’articolo stesso? Andiamo un po’ indietro ma non troppo: è possibile parlare di Riforma nel caso della scuola voluta dalla Moratti? O, possiamo considerare storicamente come principali riforme scolastiche nell’Italia repubblicana solo quelle riguardanti, la scuola media unificata del 1962 e i decreti delegati del 1974? O ancora, possiamo, abbandonandoci ad evocazioni di matrice cinquecentesche, parlare della Riforma Moratti, come Controriforma, poiché nata in risposta o in polemica con la ‘riforma’ Berlinguer che l’ha preceduta? Poco cambia. Ciò che ne è rimasto è la flessibilità e il pericolosissimo vizio dell’alternanza scuola lavoro che ha avuto come conseguenze l’asservimento di una scuola pubblica agli sfarzosi interessi delle aziende private. Poi Fioroni. Ma vogliamo rimpiangere Fioroni? Certo che non vogliamo. Forse, da perdenti posto e senza speranza, oggi, un po’ lo amiamo quel carceriere che decise imprigionarci tutti in una graduatoria ad esaurimento, promettendo “piani quinquennali” e immissioni in ruolo fino ad esaurimento scorte. Poi arriva l’oggi. Ed ecco la Gelmini, la stella cadente di tutti i bambini che la parola riforma non la conosce neanche ma ne abusa comunque. Lei a scuola non è andata ha deciso di fare la sarta e ha imparato egregiamente a fare i tagli. Oggi le scorte non sono ancora esaurite ma basta lasciarle marcire in magazzino tanto la scuola non ha più bisogno della classe docente formata e abilitata perché -sapete- si risparmia molto di più a mandare le nuove generazioni a scuola dalla televisione che dalla classe docente armata e abilitata: risicherebbero di imparare qualcosa e di ricorrere abilmente al libero arbitrio.

Ma perché la scuola pubblica non s’ha da fare? Dov’è Don Rodrigo? Lo possiamo intervistare? E i bravi? Dove sono i bravi? Portateceli qui. Con tante forze dell’ordine che si alternano davanti al provveditorato occupato prima o poi li faremo arrestare. Vada al diavolo persino Don Abbondio non abbiamo che farcene dei codardi in questo momento. La provvidenza? Non ne parliamo. Che se la tengano stretta i sindacati al tavolo delle trattative! Diamo un nome all’Innominato che ci schiaccia ma non ci fa paura. Abbiamo capito, Renzo e Lucia, la storia non voleva farli sposare, anzi il potere non voleva farli sposare. Ma perché la scuola pubblica non s’ha da’ fare? Volete vedere che è per lo stesso motivo. L’ignoranza al potere, la scuola, non la vuole: ‘sto matrimonio non s’ha da fare, lo ha detto il governo.

Chi? Chi potrebbe aiutare i due sposi? I precari ormai non si sposano più, per troppo tempo hanno perso tempo a farsi la lotta. Lotta tra precari, guerra tra poveri. L’ha instillata il governo in tempo di pace. Ma i precari a scuola ci sono andati e del libero arbitrio faranno oggi virtù. Lo sappiamo, la storia dei promessi sposi ha fatto i conti anche con la peste come oggi, la scuola pubblica, fa i conti con la crisi. Ma la crisi non è un’epidemia è una malattia. La più grossa malattia del capitalismo. La si cura non si amputa o ci ritroveremo con una scuola pubblica che deambula senza equilibrio per le nostre città assordate dalle sirene che occorreranno in soccorso. I precari della scuola oggi protestano NON per elemosinare un posto di lavoro o un imbarazzante sussidio ma perché sanno che ‘sto matrimonio s’ha da fare! La scuola pubblica s’ha da fare! E al più presto. I precari sono solo l’ultima ruota del carro del sapere e sono solo i primi ad urlare. È fisiologico: urla chi si fa male ma la cura e la direzione dovranno trovarla insieme tutte le ruote del carro.

“La scuola […] dovrebbe proporsi di immettere nella vita attiva i giovani con una certa autonomia intellettuale, cioè con un certo grado di capacità alla creazione intellettuale e pratica, di orientamento indipendente.” Una buona scuola richiederebbe “ la disponibilità finanziaria statale da dedicare all’educazione pubblica che dovrebbe essere di una certa grandezza per l’estensione che la scuola assumerebbe come edifizi, come corpo insegnanti; il corpo degli insegnanti crescerebbe di molto, perché l’efficienza della scuola è tanto maggiore e rapida quanto più è piccolo il rapporto tra allievi e maestri. […]. Anche la questione degli edifizi non è semplice, perché questo tipo di scuola, deve essere scuola collegio, con dormitori, refettori, biblioteche specializzate, sale adatte per il lavoro di seminario…”. Bene. Quante somiglianze col documento dei precari. Somiglianze d’intenti, si intende. Si, perché le su scritte parole non risalgono a voci di corridoio da provveditorato occupato o da collegio docenti, non sono parole di precario che nel 2009 reclama più sicurezze nelle strutture, aumento della spesa pubblica destinata all’istruzione, meno alunni per più docenti, no, no e no. Le su scritte parole risalgono agli anni ‘30, appartengono a Gramsci, quando la scuola unitaria doveva ancora nascere. Questo non significa che tutti i precari sono tutti gramsciani (magari lo fossero anche solo in pochi) significa che la scuola pubblica continua a cercare risposte inventando domande nuove senza prima aver soddisfatto le esigenze cardinali della scuola stessa.

Così oggi, da precaria, vorrei tornare a Gramsci e vorrei che dei promessi sposi non rifacessimo la storia della colonna infame. Quella tragica vicenda con cui Manzoni affronta il problema delle responsabilità del singolo e dell’abuso di potere, vorremmo non si ripetesse. I giudici manzoniani sapevano che la storia degli untori era solamente una leggenda e che la storia della peste era un'altra storia. Noi vogliamo essere l’altra storia. Noi sappiamo che la storia della crisi è un’altra storia e la necessità dei tagli alla scuola pubblica, è solo l’altra leggenda.

Noi precari saremo i primi ad urlare per non mandare al rogo la scuola pubblica e non assisteremo inermi al tentativo di una nuova colonna infame.

laurisaia

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